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Iperventilazione

Fra quelli che leggono che sono più anziani, ricorderanno famosi campioni e le loro belle iperventilazioni effettuate prima di scendere negli abissi.

Orrore!

Se prima dell’immersione effettuiamo una profonda iperventilazione volontaria, l’anidride carbonica, partendo da un valore basale di 40 mmHg, dopo un minuto scende a 32, dopo due minuti a 28, dopo 5 minuti a 25 e dopo dieci minuti a 22,5 mmHg.

Questo rende più difficile anche la cessione dell’ossigeno ai tessuti per una serie di meccanismi chimici (effetto Bohr) che legano alla concentrazione di CO2 la capacità del sangue di ricevere e cedere ossigeno.

Quindi l’iperventilazione forzata può addirittura determinare una relativa riduzione della disponibilità di ossigeno per le cellule.

Durante l’iperventilazione si possono avere dei disturbi temporanei e non pericolosi, come un senso di costrizione alla gola, di stordimento, nausea e debolezza, formicolii alle estremità con rigidità delle mani e dei piedi, fino ad arrivare, nei casi più gravi, allo svenimento prima ancora di iniziare l’immersione (detto anche sincope ipocapnica, cioè da forte riduzione di anidride carbonica).

La situazione può peggiorare se all’inizio dell’apnea si effettua un Valsalva per compensare l’orecchio medio.

Questa manovra, difatti, determina una riduzione della quantità di sangue spinto in circolo dal cuore e del flusso di sangue che giunge al cervello il quale, quindi, può subire una marcata carenza di ossigeno.

Il pericolo peggiore dell’iperventilazione è però costituito dal fatto che, durante la successiva apnea, sarà necessario un tempo maggiore per produrre concentrazioni di anidride carbonica sufficienti a stimolare la ripresa della respirazione, dato che si inizia l’immersione con valori molto bassi.
Si ritarda cioè, l’arrivo del punto di rottura dell’apnea.

Sapendo che sono necessari circa 60 millimetri di anidride carbonica per chilo di peso corporeo per elevare la concentrazione di questo gas da 15 mmHg (dopo l’iperventilazione forzata) a 60 mmHg (punto di rottura dell’apnea) e che un soggetto a riposo produce circa 4 millilitri per chilo e per minuto di anidride carbonica, si può calcolare che, in teoria, sarebbe addirittura possibile ottenere un’apnea di circa 15 minuti dopo intensa e protratta iperventilazione in ossigeno puro.

Bisogna inoltre considerare che con l’allenamento si acquisisce una maggiore tolleranza all’aumento della CO2 e che con il lavoro (pinneggiamento) si alza il punto di rottura dell’apnea da 60 a 80 mmHg ma tutto questo è estremamente pericoloso.

Se l’iperventilazione vera e propria è quindi vietata, bisogna precisare che risulta ammissibile una ventilazione forzata che non superi un minuto, con atti respiratori (prevalentemente espiratori) non molto ampi.

Sono possibili, per gli atleti che si dedicano all’apnea profonda, frequenze respiratorie di circa 30 atti al minuto, con una ventilazione pari a una volta e mezzo il volume corrente personale.
Oppure frequenze respiratorie di 12-15 atti al minuto, con una ventilazione che impieghi circa la metà della capacità vitale (sia questa che il volume corrente sono rilevabili per mezzo dello spirometro, l’apparecchio utilizzato dai medici sportivi proprio per verificare la capacità polmonare).

Nella pratica, molti sub che si dedicano all’apnea effettuano soltanto 3-4 atti respiratori profondi prima di ogni immersione, e ciò è perfettamente tollerato.